La fine degli influencer: identità, potere e crisi di un modello culturale

Algoritmi, performance e dipendenza: anatomia di un modello che si sta rompendo.


Ti sei mai accorto che, ormai, prima ancora di iniziare la giornata stai già performando? Ti svegli, bevi acqua, scorri il feed, metti due like, salvi un video “da riguardare” e in mezzo — quasi senza accorgertene — misuri il tuo valore confrontandolo con quello di qualcun altro. La giornata non è ancora partita, lo scroll sì. E questo oggi è diventato assolutamente normale.

Viviamo giorni in cui ogni emozione è un potenziale contenuto, ogni esperienza è una storia, ogni pensiero una caption pronta a fare presa. Un mondo dove essere non basta più: bisogna essere visti, e possibilmente approvati. E più il sistema ti premia quando riesci a “tenere alta l’attenzione”, più ti spinge a inseguire ciò che funziona: ciò che sciocca, polarizza, fa discutere, crea tensione. Non perché siamo diventati tutti superficiali, ma perché l’ecosistema è costruito per amplificare quel tipo di energia.

Negli ultimi anni ho sentito spesso ripetere l’espressione “fine degli influencer”, ma quasi sempre nel modo sbagliato: come fosse un backlash passeggero, una moda che cambia, un capriccio del web. In realtà, quello che sta succedendo è più profondo e meno immediato. È un cambio di paradigma culturale, un aggiustamento doloroso dei nervi scoperti del digitale, e riguarda tutti: creator, brand, piattaforme, pubblico. Soprattutto i più giovani, ma non solo.

 

Perché leggere questo articolo?

Il mio nome è Giuliano Di Paolo, creator, filmmaker e autore. Ho iniziato a sperimentare online dai tempi di MySpace, ho attraversato la fase dei blog, l’esplosione dei video, l’epoca in cui il “personal brand” è diventato un concetto compreso da molti. I social li ho usati, studiati, e sì: a volte ne ho beneficiato, altre volte li ho subiti in forma invasiva e assorbente.

Non scrivo come osservatore o moralista: lo faccio da dentro, con il distacco che arriva solo quando hai vissuto abbastanza cicli da riconoscerne i pattern. Perché oggi la domanda non è più “come diventare influencer”, ma: che prezzo stiamo pagando per esserlo — o per restare visibili?

 
 

la fine degli influencer come li conoscevamo

Parlare di “fine degli influencer” senza distinguere le cose crea confusione. I creator non stanno scomparendo, anzi: non sono mai stati così tanti, e non è detto che sia un male. Quello che sta entrando in crisi è l’idea di influencer come figura aspirazionale, come modello di successo lineare, desiderabile e sostenibile nel tempo. È la narrazione facile del “basta impegnarsi”, “essere costanti” o “trovare la nicchia giusta”. La realtà è più complessa.

All’inizio sembrava una rivoluzione: chiunque poteva raccontarsi, costruire un pubblico, monetizzare la propria voce. Niente gatekeeper, niente permessi, niente editori, niente filtri. Poi qualcosa si è incrinato, lentamente ma in modo sistemico. L’influencer non si limita più ad esercitare influenza settoriale o conversazionale: è diventato un’identità totalizzante, una performance progettata per funzionare dentro un algoritmo. E quando la tua identità coincide con il tuo lavoro, il rischio è che tutto diventi lavoro: passioni, relazioni, emozioni, fragilità, persino il modo in cui racconti te stesso.

Il problema non è l’influenza in sé. Il problema è quando l’influenza diventa l’unico modo per esistere online. Oggi il valore di una persona viene spesso letto attraverso follower, reach, engagement, rilevanza percepita: metriche nate per misurare contenuti che hanno finito per misurare le persone. E quando questo accade, la pressione cambia natura: il fine non è più la comunicazione di un messaggio, ma la sopravvivenza dentro un ecosistema competitivo — dove sei “forte” solo finché l’ultima cosa che hai pubblicato performa.

L’influencer, così come lo abbiamo conosciuto negli ultimi dieci anni, è intrappolato in un paradosso: deve essere autentico e insieme strategico; vulnerabile e insieme monetizzabile; unico e insieme perfettamente allineato ai trend. È qui che il modello scricchiola, perché non esiste un fuori campo. Non esiste un luogo mentale in cui tu possa essere semplicemente una persona, senza che quella persona debba anche funzionare come prodotto.

Oggi viviamo un momento storico in cui sempre più persone iniziano a chiedersi se questa corsa alla visibilità infinita sia davvero libertà o solo una nuova forma di dipendenza: più elegante, normalizzata, ma profondamente logorante.

 

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Quando la libertà diventa un algoritmo

All’inizio l’idea era semplice, quasi romantica: nessuno decide per te, nessuno ti “seleziona”, nessuno ti chiude la porta in faccia. Pubblicavi, e se eri bravo — o meglio interessante — trovavi il tuo pubblico. Era un ecosistema imperfetto, certo, ma aveva ancora un sapore umano: la sensazione che qualcosa dipendesse davvero da ciò che avevi da dire.

Poi la libertà ha cambiato forma. È diventata distribuzione. E la distribuzione è diventata un codice. Oggi non lavori più solo per il tuo pubblico: lavori per un “datore di lavoro” invisibile che non ti paga ferie, non ti dà certezze e non ti spiega mai davvero le regole. Lo chiamiamo algoritmo, ma nella pratica è una macchina che decide cosa far vedere, a chi, quando, e con quale intensità.

Il punto è che non è nemmeno un sistema stabile. Le piattaforme cambiano continuamente, si aggiustano di continuo, sperimentano senza preavviso. E questo produce un effetto psicologico devastante: ti alleni a inseguire qualcosa che non puoi conoscere fino in fondo. È come correre su un tapis roulant dove la velocità la imposta qualcun altro, e tu te ne accorgi solo quando inizi a perdere il passo.

Da qui nasce la vera distorsione: non ottimizzi più i contenuti, inizi a ottimizzare te stesso. Tempi, tono, linguaggio, espressioni, perfino ciò che scegli di vivere o raccontare. Perché se una cosa performa, il sistema ti spinge a farne di più. Se una cosa non performa, il sistema ti suggerisce — implicitamente — che quella parte di te non vale abbastanza. E nel lungo periodo questa dinamica crea adattamento, omologazione, paura di sperimentare.

Io questa trasformazione l’ho vista nitidamente negli ultimi anni: il passaggio da “racconto” a “formato”, da “idea” a “template”, da “visione” a “cosa sta funzionando questa settimana”. Verticale, veloce, immediato, replicabile. Non perché sia intrinsecamente sbagliato, ma perché se tutto è costruito per premiare la reazione istantanea, la complessità diventa un lusso. La sfumatura non fa rumore. La profondità richiede tempo. E il tempo, nell’economia dell’attenzione, è la valuta più rara.

E qui arriviamo al nodo culturale più scomodo: se l’algoritmo premia ciò che polarizza, ciò che sciocca, ciò che accende rabbia o desiderio, allora non sta solo distorcendo ciò che il pubblico vede. Sta distorcendo ciò che i creator sentono di dover diventare per restare a galla. È il motivo per cui spesso i contenuti iniziano a somigliarsi tutti: stesse frasi, stessi tagli, stesse pose, stessi “momenti rivelazione”, stesso setup luci.

In un sistema così, la domanda non è più “cosa vuoi creare?” ma “cosa devi creare per non sparire?”. E quando la visibilità diventa condizione di sopravvivenza, la libertà iniziale si trasforma in qualcosa di più sottile: una libertà apparente, dentro un recinto. Comodo, perfino redditizio, ma pur sempre un recinto.

 

«Perché se una cosa performa, il sistema ti spinge a farne di più. Se una cosa non performa, il sistema ti suggerisce — implicitamente — che quella parte di te non vale abbastanza.»

 
 

L’identità come prodotto: quando il personal brand divora chi sei

A un certo punto, senza che ce ne accorgessimo, il personal brand è diventato una preoccupazione quotidiana. Non più una cosa da marketer o da imprenditori digitali, ma una specie di sottofondo mentale costante: “come appaio?”, “come vengo percepito?”, “sto comunicando bene chi sono?”. E fin qui potrebbe anche essere sano, persino utile, se restasse uno strumento. Il problema è che spesso smette di esserlo.

Perché quando il tuo lavoro dipende da quanta visibilità ottieni, la tentazione è inevitabile: inizi a trattare te stesso come un prodotto. Non nel senso superficiale del “mi vendo”, ma in un senso più profondo e pericoloso: progetti te stesso per essere consumabile. Ottimizzi i lati migliori, riduci le parti stonate, trasformi la complessità in una versione più semplice da capire, più facile da seguire e da condividere. E lentamente accade che non stai più raccontando la tua vita, ma costruendo una narrazione che la tua vita deve inseguire.

L’ho visto succedere in tanti creator, e se devo essere onesto l’ho sentito bussare anche alla mia porta: quella sensazione sottile per cui ogni esperienza diventa potenzialmente “utile”, ogni viaggio un set da documentare, ogni emozione un contenuto da condividere. È un paradosso pericoloso, perché la tua vita viene progettata sui contenuti, invece che i contenuti la documentazione della tua vita.

E qui arriva il punto più delicato: quando la tua identità coincide con il tuo lavoro, non sei mai davvero fuori servizio. Non esiste più un confine naturale tra pubblico e privato, tra la tua intimità e la tua versione “pubblica”. Anche il riposo rischia di trasformarsi in contenuto, la fragilità di diventare una strategia e la vulnerabilità di evolversi in un asset. Siamo approfdati nell’era in cui “essere autentici” significa performare le tue lacrime, i tuoi “momenti no” di fronte ad una camera.

L’ossimoro è che più ti esponi, più ti senti obbligato a essere coerente con ciò che hai mostrato. E più diventi coerente, più perdi spazio per cambiare, contraddirti, crescere. La crescita è infatti disordinata, piena di pause, ripensamenti, giorni in cui non hai niente da dire. Ma un prodotto non può permetterselo. Un prodotto deve essere presente, sempre.

 

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quando il dolore performa e il corpo presenta il conto

C’è un passaggio sottile in cui l’autenticità smette di essere un valore umano e diventa un format. Non parlo del condividere un momento difficile con sincerità — quello può essere persino terapeutico — ma di quando la vulnerabilità viene premiata in modo così frequente da trasformarsi in strategia. Oggi “essere veri” spesso significa piangere con la luce, le parole e la giusta prospettiva, di fronte ad uno smartphone in live streaming. E se funziona… la ripeti. Ancora. E ancora.

È qui che nasce il mercato della vulnerabilità. L’influencer (e in generale il creator) non vende solo prodotti: vende se stesso a episodi, a puntate, con un ritmo quasi seriale. E dentro quella serialità, il dolore è una valuta fortissima. Perché è immediato, crea empatia, genera commenti, aumenta il tempo di visione. Ma quando una cosa dolorosa “performa”, il sistema ti invita a ripeterlo. Non per cattiveria, ma con un incentivo freddo e matematico: questa versione di te rende. La guarigione, invece, è lenta, silenziosa, poco spettacolare. Guarire non fa trend.

Il risultato è inquietante: la tua vita emotiva si trasforma in un calendario editoriale. Oggi il breakdown. Domani la “lezione imparata”. Dopodomani il “prima e dopo”. E se il pubblico risponde, la tentazione di amplificare il tutto aumenta. Perché sei intrappolato in un ecosistema in cui il mercato lo richiede.

A quel punto il confine diviene: dove finisci tu e dove inizia il contenuto? Se ogni emozione è pubblicabile, il privato si assottiglia fino a diventare una linea quasi simbolica. E qui si apre una conseguenza psicologica potente, di cui si parla ancora troppo poco: la sensazione di non sapere più per chi stai vivendo. Per te? Per gli altri? Per il pubblico? Per l’algoritmo? In gergo viene chiamato “collasso dei contesti”, ma la traduzione è semplice: non hai più uno spazio in cui puoi essere incoerente, imperfetto, non narrabile.

E mentre tutto questo succede, il tuo corpo presenta il conto. Questo non è solo un gioco mentale. Ogni like, commento, DM, picco di views attiva lo stesso meccanismo che rende addictive una slot machine: ricompensa variabile, imprevedibile, intermittente. Non sai quando arriva la gratificazione, quindi continui a cercarla. Continui a postare, a controllare, a cambiare tono, a inseguire segnali. È un ciclo che accelera: più attenzione ottieni, più ne vuoi. E più ne vuoi, più diventi dipendente dal fatto che arrivi.

Il burnout, a quel punto è un traguardo garantito. È lo stress cronico di chi è “in servizio” anche quando è a cena con gli amici, in viaggio, o perfino quando dovrebbe riposare. È il vuoto dopo la performance: quel momento in cui hai pubblicato qualcosa, hai ricevuto una valanga di feedback, eppure ti senti più solo di prima. Puoi avere numeri enormi e sentirti completamente disconnesso da te stesso. Se la tua autostima è agganciata a come performa il tuo ultimo post, stai giocando con la tua stessa identità.

 

«Ogni like, commento, DM, picco di views attiva lo stesso meccanismo che rende addictive una slot machine: ricompensa variabile, imprevedibile, intermittente. Non sai quando arriva la gratificazione, quindi continui a cercarla.»

 

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Perché tutti vogliono essere influencer (non è un problema di disciplina)

C’è una domanda che in troppi si chiedono (a volte lo faccio anch’io): perché oggi così tante persone vogliono diventare influencer? La risposta facile è “vanità”, “soldi facili”, “ego”. Ma è una lettura pigra. Perché dentro quel desiderio, oggi, c’è anche una risposta razionale — e spesso disperata — a un mondo del lavoro che ha smesso di promettere stabilità, dignità e futuro.

Per una generazione cresciuta tra crisi economiche, precarietà cronica e costo della vita fuori scala, il “9 to 5” non è più un simbolo di sicurezza: è diventato un patto che sembra offrire molto meno di quanto chieda. Se lavori tanto e ti senti comunque sostituibile, se fai tutto “bene” e non riesci comunque a costruirti una vita, è normale guardare altrove. La creator economy in questo senso è una splendida via di fuga. A volte un’illusione, sì. Ma nasce da una frattura reale.

E poi c’è la promessa più seducente di tutte: autonomia. Decidi tu quando lavorare, come lavorare, cosa creare. L’idea che la tua creatività possa diventare reddito, e che un pubblico possa diventare capitale. È una narrazione potente perché parla a un bisogno umano prima ancora che economico: sentirsi padroni della propria vita.

Ma qui arriva il punto cruciale: molti entrano nel meccanismo convinti che basti “organizzarsi meglio”, e scoprono invece un sistema progettato per trattenere l’attenzione e trasformare la propria presenza online in una corsa infinita. Quando iniziano a stare male, la risposta standard (dalle piattaforme e dai professionisti) è sempre la stessa: “devi saperti gestire”, “devi staccare”, “devi trovare un equilibrio”.

È una risposta comoda, perché scarica tutto sull’individuo. Ma se l’ecosistema premia l’eccesso e punisce la pausa, non parliamo di scarsa autodisciplina, ma di un design sbagliato. Un sistema che incentiva frequenza, reattività, polarizzazione. Che ti spinge a restare visibile non per la gioia di esprimerti, ma per non perdere terreno. E quando l’ansia diventa carburante, ti dice anche che è colpa tua se non riesci a controllarla.

Il grande equivoco è pensare che il problema siano le persone che “abusano dei social”. In realtà molti stanno semplicemente adattandosi all’ecosistema in cui vivono, come farebbe chiunque se la sopravvivenza — economica o identitaria — dipendesse dal restare rilevante. E se oggi così tanti vogliono essere influencer, non è perché siamo diventati tutti superficiali. Ma perché stiamo cercando un posto dove sentirci visti, un modo per monetizzare una vita che altrove sembra non valere abbastanza, e una forma di ribellione ad un futuro sempre più fragile.

 
 

Oltre la visibilità: comunità, lentezza e l’identità non monetizzabile

Se c’è una cosa che questa fase storica sta rendendo evidente, è che visibilità ≠ connessione. Puoi essere visto da milioni di persone e sentirti completamente solo, perché l’audience è una folla che passa, applaude, si distrae, scompare. E quando l’algoritmo cambia umore — o trova una storia più interessante — quella folla non ti “abbandona” per menefreghismo, ma perché non ti apparteneva.

Per questo, negli ultimi anni, sta emergendo una contro-tendenza potentissima: meno numeri = più comunità. Non nel senso romantico del “torniamo tutti offline e viviamo nei boschi”, ma nel senso più concreto e contemporaneo: dal feed al rapporto. Dalla viralità al valore. Dalla performance alla presenza. E qui entrano in gioco strumenti e spazi che, proprio perché meno esposti, spesso sono più sani: membership, newsletter, community chiuse, luoghi dove il dialogo non è un’arena ma una stanza condivisa.

In pratica significa accettare un’idea che fa paura a tanti creator: meno follower significa più libertà. Perché la libertà vera è poter scegliere dove stare. Non parlare a tutti, ma a chi ti ascolta davvero. E questo cambia tutto, anche emotivamente: se il tuo lavoro non dipende da un picco settimanale di attenzione, inizi a respirare. Torni a ragionare in mesi, in anni, non in ore. Torni a creare pensando a ciò che può restare, non alla mera viralità.

È anche un modo per proteggere qualcosa che abbiamo sottovalutato troppo: l’identità non monetizzabile. Quella parte di te che non serve a niente, non vende niente, non convince nessuno. Quella parte che esiste e basta. Perché se ogni cosa che sei diventa un asset, il rischio non è solo stancarti, ma perderti profondamente. E quando ti perdi, puoi anche continuare a pubblicare, ma smetti di sentire perché lo stai facendo.

Forse il vero cambio di paradigma è proprio qui: tornare a misurare il successo con parametri più umani. Non solo crescita, reach, numeri, ma con continuità, relazioni e significato. Non per “essere guardati”, ma per essere creativi. E se l’influenza, per come l’abbiamo conosciuta, sta finendo, forse è perché stiamo iniziando a intuire che la cosa più rivoluzionaria oggi è rimanere se stessi, senza il bisogno di mostrarlo.

Vuoi Portare Questa Riflessione più in Profondità?

Se leggendo fin qui hai sentito che il punto non è “usare meglio i social”, ma togliere la tua identità dal tabellone segnapunti, allora forse ti serve un cambio di prospettiva: più umana, sostenibile e pura.

Nel mio ecosistema ci sono tre strade, diverse ma complementari, per farlo senza perdere te stesso lungo la strada:

👉🏻 Libri — per rimettere a fuoco chi sei prima di decidere come vuoi essere visto.
👉🏻
Corsi — per costruire un lavoro creativo solido, che non dipenda dall’umore dell’algoritmo.
👉🏻
Coaching 1:1 — se vuoi confronto reale, chiarezza nelle scelte e un piano che tenga insieme ambizione e salute mentale.

Nel frattempo un abbraccio my friend :)

 

«Un’idea che fa paura a tanti creator: meno follower può voler dire più libertà. Perché la libertà vera non è essere ovunque, è poter scegliere dove stare. Non è parlare a tutti, ma a chi ti ascolta davvero.»

 
 

FAQ — Domande Sincere su influencer & salute mentale

Gli influencer stanno davvero “finendo” o stanno solo cambiando forma?

Più che una morte improvvisa, è una mutazione. La figura dell’influencer “aspirazionale per tutti” sta perdendo potere perché è diventata fragile: dipende da trend, algoritmi e percezione pubblica. Quello che resta (e crescerà) è un modello più sostenibile: creator con voce, comunità e valore di lungo periodo, non solo picchi di visibilità.

Che cos’è l’autenticità performativa e perché ci riguarda tutti?

È quando l’autenticità diventa un format: emozioni, fragilità e “momenti veri” vengono raccontati in modo ottimizzato per ottenere attenzione. Il problema non è condividere, ma sentirsi spinti a farlo perché “rende”. Un segnale: inizi a chiederti cosa pubblicare prima ancora di capire cosa provi davvero.

Come capisco se il mio personal brand sta divorando la mia persona?

Quando non riesci più a vivere un’esperienza senza pensare a come verrà percepita. Se ogni scelta passa dal filtro “funzionerà online?”, stai spostando il baricentro dalla vita al pubblico. Un antidoto semplice: tieni uno spazio non documentabile (tempo, hobby, relazioni) che esiste solo per te.

Perché il dolore “performa” più della guarigione?

Perché il dolore è immediato, genera reazioni, crea polarizzazione e quindi tempo di visione. La guarigione, invece, è lenta e poco spettacolare. Questo incentivo può spingere a raccontare sempre la parte più scura di te, anche quando non è più sano. Ricordalo: engagement non è terapia, e l’algoritmo non è un luogo sicuro.

Burnout da social: qual è il campanello d’allarme più sottovalutato?

Non è solo stanchezza, ma la sensazione di essere “in servizio” anche quando dovresti riposare. Controlli compulsivi, ansia post-pubblicazione, irritabilità, difficoltà a concentrarti e un vuoto strano dopo un picco di views. Se il tuo umore dipende dai numeri, è il momento di separare identità e metriche. La metrica misura un contenuto, non misura te.

Ha senso “niche down” oppure è una gabbia?

Dipende. La nicchia aiuta a farsi capire, ma diventa una gabbia quando ti costringe a recitare una versione monotematica di te. Se senti che stai tradendo interessi, valori o curiosità solo per restare coerente col personaggio, stai pagando troppo. La crescita migliore è spesso quella che regge anche quando cambi pelle — senza chiedere permesso.

Quali alternative concrete esistono alla corsa del feed?

Ridurre la dipendenza dalla visibilità di massa e spostarti verso spazi più intenzionali: newsletter, community chiuse, membership, progetti editoriali lunghi, formati che premiano profondità e relazione. Significa scegliere dove mettere energia. Meno folla, più legame. Meno rumore, più significato. E soprattutto: meno paura di non pubblicare.

Come posso lavorare sui social senza trasformarmi in un prodotto?

Serve un percorso, non un trucchetto. Se vuoi portare questa riflessione in profondità, nel mio ecosistema trovi tre strade:

  • Libri (per rimettere a fuoco identità e direzione)

  • Corsi (per costruire un lavoro creativo sostenibile)

  • Coaching 1:1 (per decisioni chiare, confini sani e un piano realistico)

 

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